LA CESSIONE DEL “PACCHETTO CLIENTI”: NUOVA FRONTIERA PREVIDENZIALE?

Una nuova forma di TFR per l’Avvocato “previdente” ed un’utile opportunità anche per il passaggio generazionale negli studi legali

E’ doveroso premettere che – considerata la peculiarità e la novità del tema, che ci occupa – la presente riflessione, pur facendo necessario riferimento a principi normativi ed orientamenti giurisprudenziali, si caratterizza per un taglio squisitamente pratico.

Ciò non solo al fine di agevolarne la comprensione, ma soprattutto allo scopo di avere un’effettiva utilità pratica, elemento, questo, imprescindibile, come emerge dalla riflessione che segue.

Nel 2013 hanno maturato il diritto alla pensione poco più di 700 avvocati. Molti hanno lasciato la gestione dello studio ai propri figli. Altri, invece, hanno cessato la propria attività, spesso dopo averla progressivamente ridotta.

Quest’ultima ipotesi assume rilevanza sotto due profili: uno strutturale-organizzativo – cd. “interno” – e l’altro – cd. “esterno” – il quale attiene al rapporto con la clientela.

Quanto al primo, la chiusura di uno studio comporta, di norma, il licenziamento del personale di segreteria, che per anni aveva prestato la propria attività presso lo studio.

Con riferimento al secondo, ovvero al rapporto con la clientela, è evidente che – nella maggior parte dei casi, qualora non sia preventivamente subentrato nell’incarico fiduciario un altro professionista – vi sia una sorta di sua naturale dispersione.

Questo fenomeno comporta, pertanto, un mutamento di fatto radicale, il quale, oltre al disagio per i dipendenti ed i clienti, priva di una preziosa opportunità i numerosi giovani avvocati, avviati alla professione forense, i quali avrebbero potuto giovarsi dell’”avviamento” dello studio legale (inteso non solo come numero di pratiche ma anche sotto il profilo della qualità, dal momento che il legale, che ha maturato una certa esperienza, ha l’opportunità di affrontare casistiche e questioni, che difficilmente vengono sottoposte ai colleghi più giovani).

E’ indiscutibile, infatti, come il flusso della clientela, ove non opportunamente canalizzato, si disperda, dal momento che, essendo ciascuno libero di riorientarsi, in assenza di indicazioni di segno diverso, si addiviene alla conseguenza che la chiusura dello studio diviene un vantaggio per gli studi,  già affermati, a discapito degli altri.

In questo contesto si è discute se mediante la cessione dello studio legale sia possibile evitare la cd. “polverizzazione” di clientela, che vanifica qualsivoglia utilità sia per chi conclude la propria esperienza professionale sia per chi la inizia.

Da qui il primo quesito: al di la delle considerazioni fattuali e delle valutazioni di opportunità, è attualmente possibile cedere lo studio legale sotto il profilo normativo?

A parere di chi scrive la risposta è affermativa.

Lo strumento negoziale, attraverso il quale si trasferiscono i diritti connessi all’esercizio di un’attività, è la cessione d’azienda.

L’applicazione della disciplina di tale fattispecie contrattuale, contemplata dagli artt. 2555 e segg. cod. civ. è sempre stata esclusa nell’ambito delle attività professionali.

Tale opinione di segno negativo si fonda, per un verso, sul fatto che la norma fa riferimento a “beni organizzati”, che nel caso della professione hanno incidenza marginale nell’esercizio dell’attività. D’altro lato, si richiama l’assunto per il quale l’avvocato non è assimilabile ad un “imprenditore” e la sua attività non è qualificabile come “impresa”.

Sulla scorta di queste considerazioni, i Giudici di merito hanno censurato, escludendola, la cessione dello studio – professionale – per diversi motivi, che emergono dalla giurisprudenza di seguito richiamata.

Il Tribunale di Catania già nel 2002 accertava la nullità – per impossibilità dell’oggetto – della cessione di uno studio professionale, ritenendolo non parificabile ad un’azienda.

In tale fattispecie il Giudice assumeva (conformandosi a principi che già si leggevano nella Cass. Sez. III 09.10.1954 nr. 3495) che la persona dell’imprenditore è rilevante nella produzione dei beni e servizi, ma non essenziale, come accade nell’esercizio di una attività professionale; argomentava, in particolare, che gli “attrezzi del mestiere” – in tale ipotesi – hanno funzione secondaria ed accessoria: a titolo esemplificativo, una penna non è assimilabile ad un trattore, né ad una pressa, strumenti questi accessori a prestazioni d’opera d’altra natura.

Vi è di più.

La decisione evidenziava come clientela dello studio professionale fosse ispirata da nome, capacità e fiducia su doti personali quali ingegno, perizia e serietà ma non dal possesso di beni materiali strumentali che ne arredano lo studio.

Altre decisioni escludevano la possibilità di cedere uno studio professionale, ritenendo che tale negozio fosse affetto da nullità per illiceità dell’oggetto: la clientela di uno studio professionale non rientra, infatti, nell’autonomia dei privati (artt. 1322-1325-1346-1418 c.c.), per cui sarebbe impensabile ipotizzare la cessione di uno studio legale, ove l’avviamento non è cedibile.

Considerato il suo carattere strettamente personale e non preordinato alla produzione di beni e servizi per lo scambio, inoltre, l’attività professionale non può mai dar luogo ad un’azienda, suscettibile di alienazione.

Nel tempo si è formato un orientamento di segno diverso: una prima decisione della Corte d’Appello di Catania del 2004 affermava come nella cessione dello studio professionale un oggetto esistesse, risultando possibile e lecito: affermava, infatti, che “la già esistente organizzazione di beni unitariamente considerati e teleologicamente indirizzati all’esercizio di una professione, rappresenta, di per sé, una chiara utilità economica”.

Di segno conforme anche la sentenza nr. 921 del 08.07-06.08.1999 del Tribunale di Treviso, successivamente riformata dalla pronuncia della Corte d’Appello di Venezia (sentenza nr. 1083/2008), la quale aderiva all’orientamento precedentemente richiamato.

Lo scenario antecedente al 2010 vedeva, pertanto, Giudici di merito che negavano valore alla cessione dello studio per la sua impossibilità giuridica, per nullità dell’oggetto.

Tale orientamento comportava – sotto il profilo pratico – il conseguente obbligo di  restituzione di quanto percepito a titolo di corrispettivo dal cedente.

Nella realtà, dunque, il crescente interesse a monetizzare il “valore della clientela” imponeva la necessità di trovare soluzioni diverse, ricorrendo a nuove forme di cessione.

Alcuni spiragli si erano aperti in casi concreti, ove la liceità dell’accordo si fondava sulla considerazione della dimensione – più o meno “aziendale” – dello studio professionale: in tal senso, la polverizzazione della professione di avvocato, orientava le decisioni verso la nullità dei contratto di cessione dello studio professionale, ove mancasse la prova dell’esistenza di quei requisiti di “automatismo, nel rapporto con la clientela”, che caratterizzava invece l’attività di altri prestatori d’opera.

La soluzione pratica a tale problematica veniva offerta proprio dalle sentenze, che – pur propendendo per la nullità nei termini sopra descritti – offrivano degli spunti argomentativi e logico-giuridici, per elidere tali profili d’illegittimità.

In buona sostanza, le decisioni negavano la possibilità di cedere uno studio legale, ritenendo, invece, lecita la cessione di uno studio “professionale”, nell’ipotesi in cui la sua struttura fosse “organizzata in forma di impresa”.

Tali spunti si rinvengono, in particolare, nelle decisioni della Corte di Cassazione nn. 11896/2002 e 14642/2006, alle quali è seguita una decisone epocale.

-. La sentenza della Cassazione civile sez. II 09.02.2010 nr. 2860

Oggi si profilano nuovi scenari per l’avvocatura italiana grazie alla sentenza della Cassazione nr. 2860/2010, che è entrata nel merito delle problematiche, di cui sopra, risolvendo positivamente il quesito, dal quale ha preso spunto il nostro iter argomentativo.

Tale decisione ha confermato, infatti, che non esiste un “avviamento” cedibile nello studio legale: l’incarico che viene assunto dall’avvocato è frutto di un rapporto fiduciario, legato a quell’intuitus personae, che caratterizza ogni contratto d’opera intellettuale.

L’applicazione pratica di tale principio comporta le conseguenze, che si vanno a descrivere.

-. Dalla cessione d’azienda alla cessione del pacchetto della clientela

Sulla scorta di tale considerazione, in effetti, i Giudici di Legittimità hanno ritenuto ammissibile la cessione del “pacchetto della clientela”, purché vi sia l’adempimento di due obbligazioni, individuate nei seguenti termini: la prima a contenuto negativo (l’impegno a non rendersi concorrenti nell’ambito territoriale oggetto dell’operatività dello studio) e la seconda di carattere positivo, individuata nell’impegno del cedente a favorire la prosecuzione del mandato con l’acquirente.

Questa seconda attività si concretizza nella presentazione della clientela, in una sorta di “mediazione” e di interscambio, oltre ed in tutte quelle relazioni, che vengono concordate tra le parti, con la finalità di consentire il subentro nel mandato.

Se, quindi, per un verso è stata statuita l’incommerciabilità di uno studio legale – considerando come il rapporto fiduciario che lega il cliente con l’avvocato non sia trasmissibile a terzi –, è stato chiarito come possa essere lecita la cessione del “pacchetto dei clienti”, che compone e costituisce in concreto “il bene” -studio professionale.

Si può, quindi, qualificare tale tipologia di avviamento “potenziale”, in relazione al quale la cessione diviene lecita solamente nel caso in cui trovino puntuale adempimento le due obbligazioni, sopra descritte, ovvero l’assenza di successiva concorrenza e l’attività di promozione sulla clientela esistente.

Tale principio era già stato espresso nella prima sentenza citata, nella quale si dava rilievo a come lo stesso legislatore tributario avesse certificato la legittimità della cessione del pacchetto della clientela.

La normativa richiamata in quella sede (cfr. in particolare l’art. 36, co. 29, D.L. 223/2006 e l’art. 54 co. quater del TUIR) aveva già previsto, infatti, la tassazione dei proventi da cessione di clientela (e, quindi, di uno studio professionale) nell’ambito dei ricavi di competenza del periodo, in cui avviene la liquidazione del corrispettivo.

In tal modo, nel precisare come il corrispettivo della cessione venisse tassato “per cassa” – e, quindi, inserendolo come ricavo d’esercizio, nel periodo in cui si materializzava il pagamento della cessione, – e non “per competenza”, la normativa certificava l’ammissibilità della cessione sotto il profilo tributario.

Per i professionisti in ambito legale, ciò comporta l’obbligo di corrispondere l’imposta nell’anno, nel quale interviene il pagamento del prezzo della cessione e non in quello – precedente – in cui interviene l’accordo di cessione.

Dalle valutazioni operate in ambito giuridico e giurisprudenziale, come sopra riepilogate, s’impongo alcune considerazioni ulteriori.

-. Nuovi scenari per giovani e vecchi avvocati

In questo scenario anche nel settore legale si profila l’ipotesi del “trasferimento della clientela”, come forma praticabile di quel fenomeno di cessione degli studi, sino a prima attuato esclusivamente dai grandi studi legale.

Concretamente tale passaggio si attua mediante la relazione che sorge tra avvocati, che si avviano verso il pensionamento e giovani colleghi, i quali vogliono crescere professionalmente.

In tale ipotesi verrebbe sicuramente agevolato il fenomeno del trasferimento degli studi legali, evitando che i primi si estinguano con il conseguente pregiudizio per dipendenti e clienti (analizzato in prima battuta) e con la privazione di una vantaggiosa opportunità per i giovani professionisti.

Dare una chance di crescita ai giovani, che abbracciano la professione forense, è importante, per attenuare la loro grande difficoltà nell’emergere, senza che ciò sia concretamente attuabili solo mediante il ricorso ad aiuti (quali – ad esempio – agevolazioni fiscali o riduzioni di contribuzione), i cui costi ricadrebbero comunque su un sistema – sia esso fiscale o previdenziale – comunque oggi in sofferenza.

Coloro che sapranno sfruttare questo passaggio generazionale mediante l’acquisizione di un “avviamento” altrui riusciranno – prima d’altri – a far emergere le proprie capacità ed a valorizzazione le loro attitudini.

Per converso, tale fenomeno potrà essere – rispetto alle garanzie, attualmente minori ed insufficienti – un quid pluris, che il sistema offre ai professionisti più anziani, per i quali l’avviamento dello studio legale potrebbe costituire “un inedito e proficuo attivo patrimoniale” oppure una meritata “sopravvenienza attiva”.

Alla luce di tali spunti, sarà interessante – nel proseguo – verificare la fattibilità di tale ipotesi negoziale, per poi valutarne gli esiti sotto il profilo dell’applicazione pratica nei diversi ambiti territoriali e nelle diverse realtà forensi, le quali sicuramente presentano ulteriori elementi variabili e caratterizzanti.

Giorgio Azzalini

Avvocato del Foro di Belluno