La deontologia in un mercato che cambia
Il ruolo dell’avvocato sta cambiando sia dal punto di vista sociale che economico!
Infatti se da un lato si assiste all’aumento esponenziale del numero dei professionisti che esercitano oggi la professione legale, dall’altro gli stessi si trovano in contatto con un’economia nettamente diversa da quella di vent’anni fa.
È evidente come l’evoluzione dei tempi e la rapidità con cui il mondo sta cambiando stia coinvolgendo l’intera professione legale.
L’epoca storica in cui viviamo, così ricca di cambiamenti, vede il ruolo dell’avvocato perdere progressivamente terreno sotto il peso di una crisi economica sempre più pressante e nel contempo il diffondersi di un sistema di comunicazione in continua evoluzione, dal quale egli rimane estraneo.
Inoltre se da un lato il numero dei clienti si riduce, dall’altro la percentuale dei professionisti che si affaccia al mondo forense è in continua crescita.
Su queste basi non è pensabile non dar vita ad un cambiamento di stile tale da poter sopravvivere al cambiamento in essere.
È per questo motivo che si sta diffondendo l’esigenza, soprattutto tra le giovani leve, di cambiare il modo di approcciarsi ai potenziali clienti: è impensabile evitare di autopromuoversi o di trovare dei metodi alternativi che garantiscano l’avvio o la conservazione del pacchetto clienti, così come è impensabile che questi ultimi si presentino dal professionista autonomamente come facevano in passato.
In un simile scenario quale miglior modo di avviare o espandere la propria attività se non attraverso il trasferimento del pacchetto clienti di uno studio già avviato che ha in animo di cedere la propria attività o di autopromuoversi attraverso i siti internet oppure di aderire a dei network che fungano da vetrina per i propri servizi: tutte soluzioni che vanno necessariamente calibrate con i principi deontologici, che disciplinano i rapporti tra colleghi, così come tra avvocati e clienti.
La deontologia infatti disciplina le condotte che devono essere rispettate dai professionisti. Ma se è vero che l’importanza di una regolamentazione corretta e puntuale dei rapporti deontologici tra colleghi rimane innegabile è altrettanto pacifico che la stessa debba adeguarsi al momento storico in cui la professione viene svolta[1].
Se quindi la deontologia appartiene alla più ampia nozione di etica professionale e caratterizza lo speciale rapporto esistente tra la professione forense e la società, allora la stessa dovrà regolamentare la professione partendo proprio delle esigenze che nascono dalla società che le manifesta.
Se però il punto di partenza è il contesto sociale di oggi, è innegabile come anche la deontologia vada rivisitata anche a livello interpretativo, tenuto conto dei cambiamenti di cui si è sin qui detto.
Il ruolo degli avvocati è direttamente coinvolto in questo processo di cambiamento e la professione forense si trova di fronte all’ esigenza di adeguare l’ambito della tradizionale deontologia al problema dei rapporti tra etica, mercato e società.
Il trasferimento del pacchetto clienti di uno studio legale come soluzione alla crisi del mondo forense
Il contesto sociale odierno se da un lato vede taluni professionisti recepire ed accogliere con favore la spinta verso il futuro, allo stesso tempo vede altri continuare a manifestare inquietudine rispetto alla possibilità di riconoscere una risposta alla crisi in forme alternative di ricerca del lavoro, come il trasferimento del pacchetto clienti degli studi legali.
Questa particolare forma di contratto infatti fornisce un’opportunità sia per chi si affaccia al mondo professionale sia per chi è animato da un obiettivo di crescita, e ciò in accordo con la sentenza n. 2860 del 09.02.2010 della Corte di Cassazione[2].
Tale decisione, unica per chiarezza dopo tante incertezze e prese di posizione antitetiche, ha definito come meritevole di tutela quel contratto atipico attraverso il quale, a fronte di un corrispettivo, un professionista – e quindi anche un avvocato – si impegni a presentare e comunque a favorire la canalizzazione della propria clientela verso un collega, impegnandosi altresì a non svolgere attività concorrenziali.
Diciamo che tale intuizione negoziale permette ad avvocati che decidano di “appendere la toga al chiodo” o perché prossimi al pensionamento oppure perché stanchi della professione e quindi diretti verso altre esperienze professionali, di monetizzare gli sforzi fatti in molti anni, concedendo per converso un chance di crescita all’acquirente.
Le prime esperienze hanno determinato la codificazione di pattuizioni, che comprendono da un lato l’impegno al subentro nell’utenza telefonica del cedente, con trasferimento del godimento dei locali, del personale di segreteria, e dall’altro il contestuale impegno a restare a disposizione dello studio per uno o più anni, con decrescente impegno, per dar corso ad una sorta di affiancamento che – canalizzando l’acquisizione di conoscenze e di mandati ad litem – completi il novero delle obbligazioni sinallagmatiche che il nuovo patto legittima.
Va poi premesso che l’intervento della Cassazione fonda la base normativa della propria interpretazione solo in parte sull’ interpretazione di una norma del codice civile, richiamando l’art. 2238 2° comma, quanto invece dando ampio e caratterizzante risalto a norme di diritto tributario.
In particolare, l’innovazione normativa intervenuta con la pubblicazione del Decreto Legislativo 223/06, meglio noto come “decreto Bersani”, ed in particolare la modifica che lo stesso apporta al testo unico delle imposte sui redditi, introducendo all’art. 54 c. 1 quater, pone alla base della liceità del citato contratto atipico la previsione secondo cui “concorrono a formare il reddito i corrispettivi percepiti a seguito di cessione di clientela o di elementi immateriali comunque riferibili all’attività artistica o professionale”.
È quindi evidente come, con l’approvazione della L. 241/2012, venga a crearsi una palese incongruenza tra la previsione del codice deontologico in merito al divieto di accaparramento della clientela e quel principio di “collezione onerosa di clientela” fissato dal provvedimento normativo del 2006 e dalla giurisprudenza di legittimità del 2010.
Ecco perché, in questo contesto di novità, non manca chi non veda l’attuazione di tale schema contrattuale come una violazione del principio di divieto di accaparramento della clientela stabilito dal Codice di deontologia forense.
Fonti normative a confronto: il codice deontologico e l’accaparramento della clientela.
Proprio il divieto di accaparramento della clientela è il punto centrale del trasferimento degli studi legali e per questo va analizzato.
Se si mette a confronto il vecchio art. 19 con il nuovo testo racchiuso nell’art. 37 del Codice di deontologia forense appariranno subito evidenti le differenze di tale divieto[3].
Innanzitutto emerge l’intento di tipizzare in modo più rigido quei canoni che in passato avevano una mera funzione esplicativa dei principali e più ricorrenti comportamenti integranti l’illecito: l’art. 37 a differenza dell’art. 19, seguendo la scelta generale della tipizzazione dell’illecito operata dal codice, reca alcune indicazioni, contenute nei cinque commi, che non rappresentano più esemplificazioni, bensì tipizzano i comportamenti illeciti sussumibili nella fattispecie[4].
Inoltre confrontando il testo della norma originale con il nuovo art. 37, risulta evidente che mentre le differenze del primo comma sono solo formali e linguistiche ed attengono all’intento di evitare che la professione venga “svilita” attraverso l’acquisizione di clientela a mezzo di agenzie o procacciatori o con modi non conformi a correttezza e decoro[5], le modifiche di maggior rilevanza, soprattutto sul piano sostanziale, sono invece quelle che interessano il secondo comma, posto a confronto con il canone I del vecchio codice.
Quest’ultimo recitava: l’avvocato non deve corrispondere ad un collega o ad un altro soggetto, un onorario, una provvigione o qualsiasi altro compenso quale corrispettivo per la presentazione di un cliente.
La nuova norma al secondo comma stabilisce invece che l’avvocato non deve offrire o corrispondere a colleghi o a terzi provvigioni o altri compensi quale corrispettivo per la presentazione di un cliente o per l’ottenimento di incarichi professionali.
“Il riferimento agli incarichi professionali amplia la portata del divieto, perché questi potrebbero essere ottenuti anche senza la presentazione del cliente e reciprocamente la presentazione del cliente potrebbe non tradursi nell’ottenimento di un incarico; dunque sia la prospettiva dell’incarico, sia quest’ultimo, se ottenuti verso un corrispettivo, integrano l’illecito. La modifica è perciò di sostanza e non di forma”[6].
Di qui si evince che la riforma ha di certo affinato e potenziato rispetto al passato il divieto dell’accaparramento della clientela e ciò nell’ottica di porre precisi divieti all’avvocato nel rivolgersi a terzi al fine di instaurare possibili rapporti di clientela e nell’ottica di tutelare la dignità e il decoro della professione forense, nonché di ispirare la condotta dell’avvocato ai doveri di probità, dignità e decoro.
Tuttavia per comprendere il vero significato della norma, è necessario capire quale sia la sua vera ratio. A questo scopo la giurisprudenza è intervenuta in molteplici casi fornendo quella chiave di lettura necessaria per fare chiarezza.
Secondo tali interpretazioni, quando si parla di divieto di avvalersi di terzi nell’ acquisire rapporti con possibili clienti, si fa riferimento a condotte consistenti nello stabilire recapiti professionali presso un’agenzia infortunistica stradale[7] oppure nell’appoggiarsi ad una sede di un’agenzia di servizi e trattare tutte le pratiche di questa, senza aver ricevuto formale mandato[8] oppure ancora nell’ospitare presso il proprio studio la sede di un’associazione di categoria che assuma l’incarico da intermediari ad insaputa del cliente.[9]
Ciò che accomuna tutti questi casi è il venir meno del contatto diretto con il cliente, il quale non viene messo nella condizione di scegliere di dare mandato al proprio difensore.
Tale contatto diretto non può mai venir meno essendo la peculiarità intrinseca su cui si basa l’attività dell’avvocato ed il rapporto di quest’ultimo con il proprio cliente.[10]
Pertanto sulle basi di quanto sin qui sostenuto, è evidente come il trasferimento dello studio da un professionista ad un altro non possa rientrare nel novero dell’accaparramento dei clienti.
Innanzitutto il trasferimento è graduale e consiste nel passaggio del know how dall’avvocato uscente al collega che prende il suo posto.
Questo passaggio è molto articolato e, perché avvenga, occorre che in modo graduato e nel rispetto dei principi di segretezza, la competenza che un tempo era di un avvocato diventi del nuovo professionista, il quale a sua volta si impegna a conoscere e a ricevere i clienti del collega per portare avanti un rapporto già avviato.
La relazione tra il legale e il cliente pertanto si svolge seguendo le tradizionali dinamiche del colloquio conoscitivo, a seguito del quale il cliente deciderà se attribuire o meno il mandato al professionista e, contrariamente a quanto sostenuto dal CNF, non vi sarebbe alcuna pre-conformazione del rapporto contrattuale[11]
In nessun modo quindi può sostenersi che il cliente non venga messo nella condizione di scegliere il proprio difensore.
Se infatti l’attività è rivolta a dei soggetti che sono in grado di svolgere sulla stessa un esame critico, proprio perché nel tempo hanno avuto modo di conoscere il proprio legale, e se tale attività risulta essere una semplice proposta effettuata in modo trasparente e con mezzi leciti, non si vede in essa alcun illecito deontologico.
Tutt’altro: con il trasferimento viene tutelato un interesse altrettanto importante, quale può essere la continuità nell’attività difensiva, e vengono mantenuti e rispettati quei principi inviolabili quali la correttezza e il decoro che la professione richiede.
Fonti normative a confronto: la deontologia in rapporto al Decreto Bersani e alla giurisprudenza.
Come si è detto, il trasferimento del pacchetto clienti degli studi legali è consentito non solo in base alla sentenza della Cassazione del 2010, ma anche dalla Legge 4 agosto 2006 n. 248 di conversione del D.L. 4 luglio 2006 n. 223 (c.d. decreto Bersani), con la quale sono state introdotte misure di liberalizzazione del settore delle professioni e nello specifico è stato introdotto il principio – pur appartenente al mondo tributario – di “corrispettivo percepito a seguito di cessione di clientela”
Nel frattempo l’entrata in vigore del Codice di deontologia forense a seguito dell’approvazione della L. 241/2012 ha senza dubbio fatto emergere dei dubbi, se non altro sulla portata (a questo punto “innovativa”) della norma prevista dall’art. 37 del codice deontologico rispetto al quadro normativo precedente.
Ci si chiede allora a quale dei tre principi di diritto far riferimento.
In realtà che la sopraccitata Legge abbia natura di norma primaria è già stato ampiamente smentito.
Una simile prospettiva invero sarebbe evidentemente in contrasto con i fondamentali principi costituzionali, nonché con il diritto europeo – diversamente da quanto sostenuto dal C.N.F. [12].
«Infatti si ricorda che la Costituzione della Repubblica Italiana, all’art. 76, autorizza il Parlamento a delegare esclusivamente al Governo l’esercizio della funzione legislativa, di cui all’art. 70 Cost.. Una delega in bianco al CNF ad emanare norme di carattere primario costituirebbe una macroscopica violazione delle norme costituzionali, da rigettarsi alla luce di una lettura costituzionalmente orientata della legge di riforma forense, la quale peraltro semplicemente prevede il potere del CNF di adottare il codice deontologico e l’obbligo per l’avvocato di rispettarlo, senza attribuire alcuna delega di potere normativo primario al CNF o assegnare al codice deontologico il rango di fonte primaria dell’ordinamento».[13]
Lo stesso vale se si tengono in considerazione i principi del diritto comunitario: anche in questo caso un’interpretazione della legge forense conforme al diritto europeo conduce ad escludere una qualsiasi attribuzione di potere normativo primario al CNF o di fonte primaria dell’ordinamento alle norme deontologiche[14].
Certo è che se si guarda alla gerarchia delle fonti e al rapporto tra le norme legislative e le norme deontologiche, benché il CNF sostenga il contrario[15], va detto che le norme deontologiche, in quanto frutto della autoregolamentazione privata, non possono derogare a norme, in questo caso addirittura imperative, alle quali risultano gerarchicamente subordinate, prevedendo l’illegittimità di comportamenti ritenuti leciti dalle fonti primarie.[16]
In conclusione, benché le decisioni a sostegno della cessione del pacchetto clienti siano di data meno recente rispetto al codice deontologico, le stesse sono da considerarsi di rango superiore a quest’ultimo e per tanto ad esso derogabili.
Il principio di accaparramento della clientela, benché riformato, rimane comunque superato dai principi comunitari e dalle norme primarie come il Decreto Bersani – oltre che supportato dalla giurisprudenza.
Conclusioni
Alla luce di quanto sin qui emerso è evidente come la riluttanza della categoria nei confronti dell’evoluzione non abbia più ragion d’essere.
Prima di tutto perché nella definizione di “accaparramento della clientela” non può essere annoverato il trasferimento del pacchetto clienti di uno studio professionale.
Questo perché, come già avuto modo di vedere, non viene meno con il trasferimento il rapporto tra l’avvocato e il cliente.
In secondo luogo le resistenze che ancora permangono non possono che ritenersi ormai legate ad un contesto che nulla ha a che fare con la realtà odierna, ma sono piuttosto ancorate a tutta quella giurisprudenza che si era formata con riferimento ai limiti per un verso etici, legati ad una nozione di buoncostume, anziché tesi ad un’interpretazione dell’ordine pubblico estesa in modo rigoroso alla libertà dei professionisti.
L’opposizione all’attuazione dei contratti di presentazione di clientela nasce da un errato timore di poter veicolare forme di parassitismo e di privilegio, che invece vengono proprio vinte dalla normalizzazione di questi contratti che sicuramente agevolano i giovani più che gli anziani.
Se consideriamo infatti l’oggettiva sproporzione tra il numero di avvocati che inizia la professione e quello dei colleghi che la concludono (la fascia di reddito più favorita, dai dati pubblicati dalla Cassa, è infatti quella degli avvocati maschi tra i 60 e i 64 anni, talché dire che l’avvocatura sia un mestiere da giovani è un’oggettiva affermazione blasfema), il mondo forense dovrebbe spingere verso un’approvazione etica di questo tipo di contratto che non penalizza il sistema, ma al contrario rende possibile un interscambio di competenze e capacità che giova soprattutto al cliente.
È vero che il riconoscimento di un contratto atipico, che pare stridere con le norme deontologiche, esce da un’esigenza meramente fiscale e quindi in modo sicuramente straordinario e non condivisibile sotto il profilo del processo logico.
Ma è vero altresì che, indipendentemente dalle origini del decreto, lo stesso ha valore di norma primaria e in quanto tale non contrastabile dai principi di deontologia.
Pertanto in un mondo professionale, in cui l’avvocato si trova necessariamente a dover diventare un imprenditore di se stesso, non v’è chi non veda nella cessione degli studi legali, una soluzione valida alla crisi che imperversa e ciò in accordo non solo con la deontologia e la giurisprudenza, ma nel rispetto della concorrenza e del mercato.
Dott.ssa Federica Casanova Fuga
GIURISTA D’IMPRESA